Funghi in città

Il vento, venendo in città da lontano, le porta doni inconsueti, di cui s’accorgono solo poche anime sensibili, come i raffreddati del fieno, che starnutano per pollini di fiori d’altre terre.

Un giorno, sulla striscia d’aiola d’un corso cittadino, capitò chissà donde una ventata di spore e ci germinarono dei funghi. Nessuno se ne accorse tranne il manovale Marcovaldo che proprio lì prendeva ogni mattina il tram.

Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non c’era tafano sul dorso d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse, e non facesse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza.

Così un mattino, aspettando il tram che lo portava alla ditta Sbav dov’era uomo di fatica, notò qualcosa d’insolito presso la fermata, nella striscia di terra sterile e incrostata che segue l’alberatura del viale: in certi punti, al ceppo degli alberi, sembrava si gonfiassero bernoccoli che qua e là s’aprivano e lasciavano affiorare tondeggianti corpi sotterranei.

Si chinò a legarsi le scarpe e guardò meglio: erano funghi, veri funghi, che stavano spuntando proprio nel cuore della città ! A Marcovaldo parve che il mondo grigio e misero che lo circondava diventasse tutt’a un tratto generoso di ricchezze nascoste, e che dalla vita ci si potesse ancora aspettare qualcosa, oltre la paga oraria del salario contrattuale, la contingenza, gli assegni familiari e il caropane.

Al lavoro fu distratto più del solito; pensava che mentre lui era lì a scaricare pacchi e casse, nel buio della terra i funghi silenziosi, lenti, conosciuti solo da lui, maturavano la polpa porosa, assimilavano succhi sotterranei, rompevano la crosta delle zolle. «Basterebbe una notte di pioggia, – si disse, – e già sarebbero da cogliere ». E non vedeva l’ora di mettere a parte della scoperta sua moglie e i sei figlioli.

– Ecco quel che vi dico ! – annunciò durante il magro desinare. – Entro la settimana mangeremo funghi ! Una bella frittura ! V’assicuro !

E ai bambini più piccoli, che non sapevano cosa i funghi fossero, spiegò con trasporto la bellezza delle loro molte specie, la delicatezza del loro sapore, e come si doveva cucinarli; e trascinò così nella discussione anche sua moglie Domitilla, che s’era mostrata fino a quel momento piuttosto incredula e distratta.

– E dove sono questi funghi? – domandarono i bambini. – Dicci dove crescono !

A quella domanda l’entusiasmo di Marcovaldo fu frenato da un ragionamento sospettoso: «Ecco che io gli spiego il posto, loro vanno a cercarli con una delle solite bande di monelli, si sparge la voce nel quartiere, e i funghi finiscono nelle casseruole altrui !» Così, quella scoperta che subito gli aveva riempito il cuore d’amore universale, ora gli metteva la smania del possesso, lo circondava di timore geloso e diffidente.

– Il posto dei funghi lo so io e io solo, – disse ai figli, – e guai a voi se vi lasciate sfuggire una parola.

Il mattino dopo, Marcovaldo, avvicinandosi alla fermata del tram, era pieno d’apprensione. Si chinò sull’aiola e con sollievo vide i funghi un po’ cresciuti ma non molto, ancora nascosti quasi del tutto dalla terra.

Era così chinato, quando s’accorse d’aver qualcuno alle spalle. S’alza di scatto e cerca di darsi un’aria indifferente. C’era uno spazzino che lo stava guardando, appoggiato alla sua scopa.

Questo spazzino, nella cui giurisdizione si trovavano i funghi, era un giovane occhialuto e spilungone. Si chiamava Amadigi, e a Marcovaldo era antipatico da tempo, forse per via di quegli occhiali che scrutavano l’asfalto delle strade in cerca di ogni traccia naturale da cancellare a colpi di scopa.

Era sabato; e Marcovaldo passò la mezza giornata libera girando con aria distratta nei pressi dell’aiola, tenendo d’occhio di lontano lo spazzino e i funghi, e facendo il conto di quanto tempo ci voleva a farli crescere.

La notte piovve: come i contadini dopo mesi di siccità si svegliano e balzano di gioia al rumore delle prime gocce, così Marcovaldo, unico in tutta la città, si levò a sedere nel letto, chiamò i familiari. « È la pioggia, è la pioggia », e respirò l’odore di polvere bagnata e muffa fresca che veniva di fuori.

All’alba – era domenica –, coi bambini, con un cesto preso in prestito, corse subito all’aiola. I funghi c’erano, ritti sui loro gambi, coi cappucci alti sulla terra ancora zuppa d’acqua. – Evviva ! –e si buttarono a raccoglierli.

– Babbo ! guarda quel signore lì quanti ne ha presi ! – disse Michelino, e il padre alzando il capo vide in piedi accanto a loro, Amadigi anche lui con un cesto pieno di funghi sotto il braccio

– Ah, li raccogliete anche voi ? – fece lo spazzino. – Allora sono buoni da mangiare ? Io ne ho presi un po’ ma non sapevo se fidarmi… Più in lì nel corso ce n’è nati di più grossi ancora… Bene, adesso che lo so, avverto i miei parenti che sono là a discutere se conviene raccoglierli o lasciarli… – e s’allontanò di gran passo.

Marcovaldo restò senza parola: funghi ancora più grossi, di cui lui non s’era accorto, un raccolto mai sperato, che gli veniva portato via così, di sotto il naso. Restò un momento quasi impietrito dall’ira, dalla rabbia, poi – come talora avviene – il tracollo di quelle passioni individuali si trasforma in uno slancio generoso. A quell’ora, molta gente stava aspettando il tram, con l’ombrello appeso al braccio, perché il tempo restava umido e incerto. – Ehi, voialtri ! Volete farvi un fritto di funghi questa sera ? – grida Marcovaldo alla gente assiepata alla fermata. – Sono cresciuti i funghi qui nel corso ! Venite con me ! Ce n’è per tutti ! – e si mise alle calcagna di Amadigi, seguito da un codazzo di persone.

Trovarono ancora funghi per tutti e, in mancanza di cesti, li misero negli ombrelli aperti. Qualcuno disse: – Sarebbe bello fare un pranzo tutti insieme ! – Invece ognuno prese i suoi funghi e andò a casa propria.

Ma si rividero presto, anzi la stessa sera, nella medesima corsia dell’ospedale, dopo la lavatura gastrica che li aveva tutti salvati dall’avvelenamento: non grave, perché la quantità di funghi mangiati da ciascuno era assai poca.

Marcovaldo e Amadigi avevano i letti vicini e si guardavano in cagnesco.


Il coniglio velenoso

Quando viene il giorno d’uscire d’ospedale, fin dal mattino uno lo sa e se è già in gamba gira per le corsie, ritrova il passo per quando sarà fuori, fischietta, fa il guarito coi malati non per farsi invidiare ma per il piacere d’usare un tono incoraggiante. Vede fuori delle vetrate il sole, o la nebbia se c’è nebbia, ode i rumori della città: e tutto è diverso da prima, quando ogni mattino li sentiva entrare – luce e suono d’un mondo irraggiungibile – svegliandosi tra le sbarre di quel letto. Adesso là fuori c’è di nuovo il suo mondo: il guarito lo riconosce come naturale e consueto; e d’improvviso, riavverte l’odore d’ospedale.

Marcovaldo un mattino così fiutava intorno, guarito, aspettando che gli scrivessero certe cose sul libretto della mutua per andarsene. Il dottore prese le carte, gli disse: – Aspetta qui, – e lo lasciò solo nel suo laboratorio. Marcovaldo guardava i bianchi mobili smaltati che aveva tanto odiato, le provette piene di sostanze torve, e cercava d’esaltarsi all’idea che stava per lasciare tutto quanto: ma non riusciva a provarne quella gioia che si sarebbe atteso. Forse era il pensiero di tornare alla ditta a scaricare casse, o quello dei guai che i suoi figlioli avevano certo combinato nel frattempo, e più di tutto la nebbia che c’era fuori e che dava l’idea di doversene uscire nel vuoto, di sfarsi in un umido niente. Così girava gli occhi intorno, con un indistinto bisogno d’affezionarsi a qualcosa di là dentro, ma ogni cosa che vedeva gli sapeva di strazio o di disagio.

Fu allora che vide un coniglio in una gabbia. Era un coniglio bianco, di pelo lungo e piumoso, con un triangolino rosa di naso, gli occhi rossi sbigottiti, le orecchie quasi implumi appiattite sulla schiena. Non che fosse grosso, ma in quella gabbia stretta il suo corpo ovale rannicchiato gonfiava la rete metallica e ne faceva spuntar fuori ciuffi di pelo mossi da un leggero tremito. Fuori della gabbia, sul tavolo, c’erano dei resti d’erba, e una carota. Marcovaldo pensò a come doveva essere infelice, chiuso là allo stretto, vedendo quella carota e non potendola mangiare. E gli aprì lo sportello della gabbia. Il coniglio non uscì: stava lì fermo, con solamente un lieve moto del muso come fingesse di masticare per darsi un contegno. Marcovaldo prese la carota, gliel’avvicinò, poi lentamente la ritrasse, per invitarlo a uscire. Il coniglio lo seguì, addentò circospetto la carota e con diligenza prese a rosicchiarla d’in mano a Marcovaldo. L’uomo lo carezzò sulla schiena e intanto lo palpò per vedere se era grasso. Lo sentì un po’ ossuto, sotto il pelo. Da questo, e dal modo come tirava la carota, si capiva che dovevano tenerlo un po’ a stecchetto. «L’avessi io, – pensò Marcovaldo, – lo rimpinzerei finché non diventa una palla». E lo guardava con l’occhio amoroso dell’allevatore che riesce a far coesistere la bontà verso l’animale e la previsione dell’arrosto nello stesso moto dell’animo. Ecco che dopo giorni e giorni di squallida degenza in ospedale, al momento d’andarsene, scopriva una presenza amica, che sarebbe bastata a riempire le sue ore e i suoi pensieri. E doveva lasciarla, per tornare nella città nebbiosa, dove non s’incontrano conigli.

La carota era quasi finita, Marcovaldo prese la bestia in braccio e andava cercando intorno qualcos’altro da dargli. Gli avvicinò il muso a una piantina di geranio in vaso che era sulla scrivania del dottore, ma la bestia mostrò di non gradirla. Proprio in quel momento Marcovaldo sentì il passo del dottore che stava entrando: come spiegargli perché teneva il coniglio tra le braccia ? Aveva indosso il suo giubbotto da lavoro, chiuso alla vita. In fretta ci ficcò dentro il coniglio, s’abbottonò, e perché il dottore non gli vedesse quel rigonfio sussultante sullo stomaco, lo fece passare dietro, sulla schiena. Il coniglio, spaventato, stette buono. Marcovaldo prese le sue carte, e riportò il coniglio sul petto perché doveva voltarsi e uscire. Così, col coniglio nascosto nel giubbotto, lasciò l’ospedale e andò al lavoro.

– Ah, sei guarito finalmente ? – disse il caporeparto signor Viligelmo vedendolo arrivare. – E cosa ti è cresciuto, lì ? – e gli indicò il petto sporgente.

– Ci ho un impiastro caldo contro i crampi, – disse Marcovaldo. In quella il coniglio dette un guizzo, e Marcovaldo saltò su come un epilettico.

– Cosa ti piglia ? – fece Viligelmo.

– Niente: singhiozzo, – rispose lui, e con la mano spinse il coniglio dietro la schiena.

– Sei ancora un po’ malandato, vedo, – disse il capo.

Il coniglio cercava di arrampicarglisi sulla schiena e Marcovaldo scrollava le spalle per farlo scendere.

– Hai i brividi. Va’ a casa ancora per un giorno. Domani vedi d’essere guarito.

A casa, Marcovaldo arrivò reggendo il coniglio per le orecchie come un cacciatore fortunato.

– Papà ! Papà ! – l’acclamarono i bambini correndogli incontro. – Dove l’hai preso ? Ce lo regali ? È un regalo per noi ? – e volevano subito afferrarlo.

– Sei tornato ? – disse la moglie e dall’occhiata che gli rivolse, Marcovaldo capì che il tempo della sua degenza non era servito ad altro che a farle accumulare nuovi motivi di risentimento contro di lui. – Un animale vivo ? E cosa vuoi farne ? Sporca dappertutto.

Marcovaldo sgombrò il tavolo e vi piazzò il coniglio in mezzo, che s’appiattì come cercando di sparire. – Guai a chi lo tocca ! – disse. – È il nostro coniglio, e ingrasserà tranquillo fino a Natale.

– Ma è un coniglio o una coniglia ? – chiese Michelino.

Alla possibilità che fosse una coniglia, Marcovaldo non ci aveva pensato. Subito gli venne in mente un nuovo piano: se era una femmina si poteva farle fare i coniglietti e mettere su un allevamento. E già nella sua fantasia gli umidi muri di casa sparivano e c’era una fattoria verde tra i campi.

Era proprio un maschio, invece. Ma a Marcovaldo quest’idea dell’allevamento ormai gli era entrata in testa. Era un maschio, ma un maschio bellissimo, a cui si poteva cercare una sposa e i mezzi per crearsi una famiglia.

– E cosa gli diamo da mangiare, se non ce n’è per noi ? – disse la moglie, tagliente.

– Lascia pensare a me, – disse Marcovaldo.

L’indomani, in ditta, a certe piante verdi in vaso degli uffici della Direzione, che lui doveva ogni mattino portar fuori, innaffiare e riportare a posto, tolse una foglia a ciascuna: larghe foglie lucide da una parte e dall’altra opache; e se le ficcò nella giubba. Poi, a una impiegata che veniva con un mazzetto di fiori chiese: – Glieli ha dati il moroso ? E non me ne regala uno ? – ed intascò anche quello. A un ragazzo che sbucciava una pera, disse: – Lasciami le bucce –. E così, qua una foglia, là una scorza, laggiù un petalo, sperava di sfamare la bestiola.

A un certo punto, il signor Viligelmo lo mandò a chiamare. « Si saranno accorti delle piante spelacchiate ? » si domandò Marcovaldo, abituato a sentirsi sempre in colpa.

Dal caporeparto c’era il medico dell’ospedale, due militi della Croce Rossa ed una guardia civica. – Senti, – disse il medico, – è sparito un coniglio dal mio laboratorio. Se ne sai qualcosa ti conviene di non fare il furbo. Perché gli abbiamo iniettato i germi di una malattia terribile e può spargerla per tutta la città. Non ti chiedo se l’hai mangiato perché a quest’ora non saresti più tra i vivi.

Fuori aspettava un’autoambulanza; ci salirono di corsa, e con un continuo urlo di sirena, percorsero vie e viali verso la casa di Marcovaldo: e per la via restò una scia di foglie e bucce e fiori che Marcovaldo gettava via dal finestrino tristemente.

La moglie di Marcovaldo quel mattino non sapeva proprio cosa mettere in pentola. Guardò il coniglio che il marito aveva portato a casa il giorno prima, e che ora stava in una gabbia improvvisata, piena di trucioli di carta. « È venuto proprio a proposito, – si disse. – Soldi non ce n’è; il mensile se n’è già andato in medicine extra che la Mutua non paga; le botteghe non ci fanno più credito. Altro che far l’allevamento, o aspettare a Natale per metterlo arrosto ! Noi saltiamo i pasti e ancora dobbiamo ingrassare un coniglio ! »

– Isolina, – disse alla figlia, – tu sei già grande, devi imparare come si cucinano i conigli. Comincia ad ammazzarlo e a spellarlo e poi ti spiego come devi fare.

Isolina stava leggendo un giornale di novelle sentimentali. – No, – mugolò, – comincia tu ad ammazzarlo e a pelarlo, e poi starò a vedere come lo cucini.

– Brava ! – disse la madre. – Io d’ammazzarlo non ho cuore. Ma so che è una cosa facilissima, basta prenderlo per le orecchie e dargli una forte botta sulla collottola. Per spellarlo, poi vedremo.

– Non vedremo niente, – disse la figlia senza alzare il naso dal giornale, – io colpi sulla collottola a un coniglio vivo non ne do. E a spellarlo non ci penso neanche.

I tre bambini erano stati a sentire questo dialogo a occhi spalancati.

La madre restò un po’ soprappensiero, li guardò, poi disse: – Bambini…

I bambini, come d’intesa, voltarono le spalle alla madre e uscirono dalla stanza.

– Aspettate, bambini ! – disse la madre. – Vi volevo dire se vi piacerebbe uscire col coniglio. Gli metteremo un bel nastro al collo e andate un po’ a passeggio.

I bambini si fermarono e si guardarono negli occhi. – A passeggio dove? – chiese Michelino.

– Be’, potete fare quattro passi. Poi andate a trovare la signora Diomira, le portate il coniglio e le dite se per favore ce lo ammazza e ce lo spella, lei che è così brava.

La madre aveva toccato il tasto giusto: i bambini, si sa, restano impressionati dalla cosa che a loro piace di più, e al resto preferiscono non pensarci. Così trovarono un lungo nastro color lilla, lo legarono attorno al collo della bestiola, e l’usarono come guinzaglio, strappandoselo di mano e tirandosi dietro il coniglio riluttante e mezzo strangolato.

– Dite alla signora Diomira, – raccomandò la madre, – che poi può tenersi un cosciotto ! No, meglio dirle: la testa. Insomma: veda lei.

I bambini erano appena usciti quando l’alloggio di Marcovaldo fu circondato e invaso da infermieri, medici, guardie e poliziotti. Marcovaldo era in mezzo a loro più morto che vivo. – È qui il coniglio che è stato portato via dall’ospedale ? Presto, indicateci dov’è senza toccarlo: ha addosso i germi d’una tremenda malattia ! – Marcovaldo li condusse alla gabbia, ma era vuota. – Già mangiato? – No, no ! – E dov’è? – Dalla signora Diomira ! – e gli inseguitori ripresero la caccia.

Bussarono dalla signora Diomira. – Il coniglio ? Che coniglio ? Siete pazzi ? – A vedersi la casa invasa da sconosciuti, in camice bianco e in divisa, che cercavano un coniglio, alla vecchietta venne quasi un colpo. Del coniglio di Marcovaldo non sapeva niente.

Infatti, i tre bambini, volendo salvare il coniglio dalla morte, pensarono di portarlo in un posto sicuro, giocarci un poco e poi lasciarlo andare; e invece di fermarsi al pianerottolo della signora Diomira, decisero di salire fino a un terrazzo che c’era sui tetti. Alla madre avrebbero detto che aveva strappato il guinzaglio e era scappato. Ma nessun animale pareva così poco adatto a una fuga quanto quel coniglio. Fargli salire tutte quelle scale era un problema: si rannicchiava spaventato a ogni gradino. Finirono per prenderlo in braccio e portarlo su di peso.

Sul terrazzo volevano farlo correre: non correva. Provarono a metterlo su un cornicione per vedere se camminava come i gatti: ma pareva che soffrisse le vertigini. Provarono a issarlo su un’antenna della televisione per vedere se sapeva stare in equilibrio: no, cascava. Annoiati, i ragazzi strapparono il guinzaglio, lasciarono libera la bestia in un punto dove le si aprivano davanti le vie dei tetti, mare obliquo e angoloso, e se ne andarono.

Quando fu solo, il coniglio prese a muoversi. Tentò alcuni passi, si guardò intorno, cambiò direzione, si girò, poi a piccoli balzi, a saltelli, prese a andare per i tetti. Era una bestia nata prigioniera: il suo desiderio di libertà non aveva larghi orizzonti. Non conosceva altro bene della vita se non il poter stare un po’ senza paura. Ecco ora poteva muoversi, senza nulla intorno che gli facesse paura, forse come mai prima in vita sua. Il luogo era insolito, ma una chiara idea di cosa fosse e cosa non fosse solito non aveva potuto mai crearsela. E da quando dentro di sé sentiva rodere un male indistinto e misterioso, il mondo intero lo interessava sempre meno. Così andava sui tetti; e i gatti che lo vedevano saltare non capivano chi era e arretravano timorosi.

Intanto, dagli abbaini, dai lucernari, dalle altane, l’itinerario del coniglio non era passato inosservato. E chi cominciò a esporre catini d’insalata sul davanzale spiando da dietro alle tendine, chi buttava un torsolo di pera sulle tegole e ci tendeva intorno un laccio di spago, chi disponeva una fila di pezzettini di carota sul cornicione, che seguitavano fino al proprio abbaino. E una parola d’ordine correva in tutte le famiglie che abitavano sui tetti: – Oggi coniglio in umido – o – Coniglio in fricassea – o – Coniglio arrosto.

La bestia s’era accorta di questi armeggii, di queste silenziose offerte di cibo. E sebbene avesse fame, diffidava. Sapeva che ogni volta che gli uomini cercavano d’attirarlo offrendogli cibo, capitava qualcosa d’oscuro e doloroso: o gli conficcavano una siringa nelle carni, o un bisturi, o lo cacciavano di forza in un giubbotto abbottonato, o lo trascinavano con un nastro al collo… E la memoria di queste disgrazie faceva una cosa sola col male che sentiva dentro di sé, col lento alterarsi d’organi che avvertiva, col presentimento della morte. E con la fame. Ma come se di tutti questi disagi sapesse che solo la fame poteva essere alleviata, e riconoscesse che questi infidi esseri umani gli potevan dare – oltre a sofferenze crudeli – un senso – di cui pur aveva bisogno – di protezione, di calore domestico, decise d’arrendersi, di prestarsi al gioco degli uomini: andasse poi come voleva. Così, cominciò a mangiare i pezzettini di carota, seguendo la scia che, lo sapeva bene, l’avrebbe fatto ancora prigioniero e martire, ma tornando a gustare forse per l’ultima volta il buon sapore terrestre degli ortaggi. Ecco si avvicinava alla finestra dell’abbaino, ecco che una mano si sarebbe protesa a ghermirlo: invece, tutt’a un tratto, la finestra si chiuse e lo lasciò fuori. Questo era un fatto estraneo alla sua esperienza: una trappola che si rifiutava di scattare. Il coniglio si volse, cercò gli altri segni d’insidia intorno, per scegliere a quale d’essi gli conveniva arrendersi. Ma intorno le foglie d’insalata venivano ritirate, i lacci gettati via, la gente affacciata spariva, sbarrava finestre e lucernari, i terrazzi si spopolavano.

Era successo che una camionetta della polizia aveva attraversato la città, gridando da un altoparlante: – Attenzione attenzione ! È stato smarrito un coniglio bianco dal pelo lungo, affetto da una grave malattia contagiosa ! Chiunque lo rintracci sappia che la sua carne è velenosa, e anche il contatto può trasmettere germi nocivi ! Chiunque lo veda lo segnali al più vicino posto di polizia, ospedale o caserma dei pompieri !

Il terrore si sparse sui tetti. Ognuno stava in guardia e appena avvistava il coniglio che con un floscio balzo passava da un tetto a quello vicino, dava l’allarme e tutti sparivano come all’avvicinarsi d’uno sciame di locuste. Il coniglio procedeva in bilico sulle cimase; questo senso di solitudine, proprio nel momento in cui aveva scoperto la necessità della vicinanza dell’uomo, gli pareva ancora più minaccioso, intollerabile.

Intanto il cavalier Ulrico, vecchio cacciatore, aveva caricato il suo fucile con cartucce da lepre, ed era andato ad appostarsi su un terrazzo, dietro un fumaiolo. Quando vide nella nebbia affiorare l’ombra bianca del coniglio, sparò; ma tant’era la sua emozione al pensiero dei malefici della bestia, che la rosa dei pallini grandinò un po’ discosto, sulle tegole. Il coniglio sentì la fucilata rimbalzare intorno, e un pallino trapassargli un orecchio. Comprese: era una dichiarazione di guerra; ormai ogni rapporto con gli uomini era rotto. E in dispregio a loro, a questa che in qualche modo sentiva come una sorda ingratitudine, decise di farla finita con la vita.

Un tetto coperto di lamiera scendeva obliquo, e terminava nel vuoto, nel nulla opaco della nebbia. Il coniglio ci si posò con tutte e quattro le zampe, cautamente dapprima, poi abbandonandosi. E così scivolando, divorato e circondato dal male, andava verso la morte. Sul ciglio, la grondaia lo trattenne un secondo, poi sbilanciò giù…

E finì tra le mani guantate d’un pompiere, issato in cima a una scala portatile. Impedito fin in quell’estremo gesto di dignità animale, il coniglio venne caricato sull’ambulanza che partì a gran carriera verso l’ospedale. A bordo c’erano anche Marcovaldo, sua moglie e i suoi figlioli, ricoverati in osservazione e per una serie di prove di vaccini.


Italo Calvino, Marcovaldo ovvero Le stagioni in città, Torino 1963

[http://www.sebastio.uniba.it/dati/antologiatesti.pdf]