Anversa, 10 maggio 1538
L'orto è pronto. Tutti si complimentano con me.
Nessuno fa domande; chi sono veramente, cosa ho fatto prima di capitare
qui... Sono dei loro: un fratello tra gli altri.
Eloi ha l'espressione attenta che ormai conosco; versa un goccio per
entrambi, che facilita il racconto.
Riprendo il filo dei ricordi: - Partimmo verso nord, io e Hofmann,
lungo il corso del Reno, su una chiatta di mercanti. Passammo Worms,
Magonza, Colonia, su fino ad Arnhem. Ero riuscito a imporre il silenzio
al mio compagno di viaggio finché non ci fossimo trovati
nella Frisia: non volevo rischiare di vedermi fermare lungo la strada.
Gli costò, ma mantenne la parola. Lasciato il corso del
Reno, proseguimmo a piedi e a dorso di mulo, sempre a nord. Ci
spostavamo da un paese all'altro, lungo il confine dei Paesi Bassi,
verso le campagne della Frisia orientale. Hofmann era già
stato in quelle terre durante le sue lunghe predicazioni itineranti e
anche questa volta non mancò di istruire: i contadini di
quelle lande su quale scelta obbligata il compiersi del tempo
richiedesse a ogni cristiano: seguire il Cristo nel Suo esempio di
vita. Li ribattezzava tutti, come un novello Giovanni.
Intanto mi raccontava della situazione di Emden, la nostra prossima
meta. Molti profughi si trovavano in quella città, per lo
piú Sacramentisti olandesi, cosí li chiamava,
quelli che non accettavano piú i sacramenti della Chiesa di
Roma e non credevano alla transustanziazione. Questo, mi spiegava, li
spingeva già oltre le posizioni di Lutero, aprendoli alla
lucida promessa del millennio. Li descriveva come cani sciolti in
attesa di un profeta che portasse loro il messaggio di speranza e la
luce della fede rinnovata. Definiva quel viaggio «il nostro
deserto», che ci avrebbe temprati mettendo alla prova la
nostra fede e perfezionando la giustificazione del Signore attraverso
l'ubbidienza assoluta a Cristo. Io lo assecondavo, senza cercare di
sottrarmi al fascino che le sue parole riuscivano a esercitare sugli
umili: ero davvero stupito da quella forza. Non gli avevo detto di aver
combattuto al fianco di Thomas Müntzer: la sua condanna della
violenza me lo impediva. Era solito riservarmi una frase lapidaria,
ogniqualvolta lo provocavo accennando alla possibilità che
Cristo chiamasse a sé il Suo esercito di prescelti per
sterminare gli empi: «Chi prende la spada perirà
di spada».
Giungemmo a Emden in giugno. Era una piccola fredda città,
uno scalo per le navi mercantili tra Amburgo e le città
olandesi. La comunità di stranieri era numerosa, come aveva
predetto Hofmann. Il principe regnante, il conte Enno II, lasciava che
nelle sue terre le idee dei riformatori della Chiesa facessero il loro
corso, senza tentare di ostacolarle in alcun modo. Il mio Ella
cominciò a predicare per le strade fin dal primo giorno
attirando su di sé l'attenzione di tutti. Apparve evidente
che gli altri predicatori non avrebbero potuto competere con lui, se li
sarebbe bevuti in un sorso. In capo a poche settimane aveva
ribattezzato almeno trecento persone e fu in grado di fondare una
comunità che accoglieva gli scontenti delle piú
varie provenienze e condizioni. Erano soprattutto fuoriusciti dalla
Chiesa papista e insoddisfatti di quella luterana, che anche senza
preti e vescovi vantava già una gerarchia di teologi e
dottori non troppo diversa da quella che aveva voluto abolire.
La nomea di Anabattisti ci raggiunse quasi subito e spaventò
a morte le autorità cittadine.
Gli eventi mi giravano intorno, sentivo la terra fremere sotto i piedi
e una strana sensazione nell'aria. No, non ero stato contagiato dal mio
compagno di viaggio: era l'incombere degli eventi, il richiamo della
vita di cui mi aveva parlato Ursula. Fu per questo che decisi di
mollare Hofmann al suo destino di predicatore e seguire la mia strada.
Una strada che mi avrebbe portato ancora altrove, in mezzo alla
tempesta. Impossibile dire se fossi io a guidare la mia esistenza verso
il limite da superare o se invece fosse quella tormenta a trascinarmi
con sé.
Le autorità di Emden espulsero Hofmann come sobillatore
indesiderabile. Mi disse che sarebbe tornato indietro per scrivere
ancora, che lassú il suo compito era terminato.
Affidò la guida della nuova comunità a un certo
Jan Volkertsz, detto Trijpmaker, perché di mestiere
fabbricava zoccoli di legno. Questo olandese di Hoorn non era un grande
oratore, ma conosceva la Bibbia e aveva il piglio di chi l'aveva
ispirato e la stessa intraprendenza. Salutai il vecchio Melchior
Hofmann alla porta della città, mentre lo scortavano fuori
dal territorio di Emden. Sorrideva, ingenuo e fiducioso come sempre,
confessandomi a bassa voce di esser certo che il Giorno del Giudizio
sarebbe giunto in capo a tre anni. Anch'io gli concessi l'ultimo
sorriso. E cosí lo ricordo, un saluto da lontano, mentre
caracolla oltre la mia vista su un mulo magro.
Ancora non mi è chiaro cosa Eloi stia cercando. Se ne resta
muto dietro il tavolo, rapito dal racconto, forse anche a bocca aperta,
nella penombra che m'impedisce di distinguerne il volto chiaramente.
Io continuo, deciso ormai ad arrivare in fondo e disposto a stupirlo a
ogni pagina di questa cronaca non scritta.
- Avrei rivisto Melchior Hofmann soltanto due anni dopo, quando venne
in Olanda a raccogliere quello che aveva seminato. Ma ti stavo
raccontando di Emden. Eravamo rimasti io e Trijpmaker a reggere le
sorti della comunità anabattista ed era ormai prossimo
Natale quando fummo raggiunti dall'ingiunzione di lasciare la
città. Non ne fui dispiaciuto: sentivo di dover ripartire,
di non potermi fermare ancora in quel porto del Nord. Decidemmo di
notte, con la determinazione e lo spirito di chi sa di affrontare una
grande impresa: i Paesi Bassi, con gli esuli che lentamente stavano
riuscendo a passare la frontiera e a tornare alle loro città
d'origine, si aprivano ai nostri piedi come un territorio inesplorato,
pronto a raccogliere il messaggio e la sfida che portavamo alle
autorità costituite. Niente ci avrebbe fermato. Per
Trijpmaker era una missione, come lo era stata per Hofmann. Per me era
un altro calcio all'orizzonte, un modo di spingerlo avanti, nuova
terra, nuove genti.
Avremmo puntato su Amsterdam. Lungo il cammino Trijpmaker mi avrebbe
insegnato qualche frase in olandese, perché fossi in grado
di farmi capire, ma sarebbe stato lui a predicare e battezzare.
Cominciò subito: prima di partire da Emden
battezzò un sarto, un certo Sicke Freerks, che sarebbe
tornato alla sua città natale, Leeuwarden, nella Frisia
occidentale, col compito di fondare una comunità di
fratelli, e dove invece trovò la morte nel marzo dell'anno
successivo per mano del boia.
Mentre scendevamo verso sud-ovest, attrversando Groninga, Assen,
Meppel, fino all'Olanda, Trijpmaker mi illuminava sulla situazione
della sua terra. I Paesi Bassi erano il cuore commerciale e
manifatturiero dell'Impero, da lí l'Imperatore ricavava la
maggior parte delle sue entrate. Le città portuali godevano
di una certa autonomia che dovevano però difendere con le
unghie e i denti dalle mire accentratrici dell'Imperatore. Carlo V
continuava ad annettersi nuove terre, lasciando percorrere il paese
dalle sue truppe, con grave danno per i traffici e le coltivazioni. Per
altro l'Asburgo sembrava preferire l'assolata Spagna alle sue terre
natali e aveva piazzato i suoi ufficiali su molti scranni importanti e
un governo imperiale a Bruxelles, per poi andarsene a stare a sud.
La condizione della Chiesa in questa parte d'Europa era quanto di
piú tragico si potesse immaginare: regnava la religione
delle abbuffate alle spalle dei contadini, la degenerazione lucrosa
degli ordini monastici e dei vescovadi. Non esisteva alcuna guida
spirituale nei Paesi Bassi e molti fedeli avevano cominciato ad
abbandonare la Chiesa, per radunarsi in confraternite laiche che
conducevano una vita comune e coltivavano lo studio della Scrittura.
Costoro avrebbero potuto accogliere il nostro messaggio prima di tutti.
Le idee di Lutero si erano diffuse tra il popolino e anche tra i
mercanti che si arricchivano alle sue spalle. Le faccende di Germania
rimanevano lontane, l'ubbidienza a cui erano stati ricondotti i
contadini tedeschi non poteva riguardare i lavoratori delle manifatture
olandesi, i tessitori, i carpentieri dei porti, gli artigiani di quelle
città in costante espansione. La religione riformata di
Lutero portava con sé nuovi dogmi, nuove autorità
religiose, che allenavano la fede ai credenti in modo appena
piú tenue di quanto facessero i papisti. L'eguaglianza nella
fede, la vita comunitaria, avevano bisogno di una linfa diversa. Noi
eravamo lí per portarla.
Rimasi impressionato dal paesaggio di quella fertilissima terra.
Venendo dalla Germania, dalle sue selve nere, era stupefacente vedere
come gli abitanti dei Paesi Bassi avessero piegato la natura al loro
volere, strappando al mare ogni metro di terreno coltivabile, per
piantare grano, girasoli, cavoli. Mulini lungo la strada in numero
impressionante, genti laboriose, instancabili, in grado di sfidare le
avversità naturali e di vincerle. La città di
Amsterdam non era da meno: i mercati, le banche, le botteghe,
l'intreccio di canali, il porto, ogni angolo brulicava di
attività febbrili.
Erano i primi giorni del nuovo anno, il 1531, e nonostante il gelo
intenso le strade e i canali erano zeppi di un andirivieni incessante.
Una città travolgente, in cui avrei potuto perdermi. Ma
Trijpmaker conosceva alcuni fratelli che risiedevano lí
già da tempo, avremmo cominciato da loro.
Prendemmo contatti con uno stampatore perché producesse
alcuni stralci degli scritti di Hofmann che Trijpmaker aveva tradotto
in olandese e anche dei fogli volanti da consegnare a mano. Me ne
occupai io, mentre Trijpmaker pensava a radunare tutte le sue
conoscenze in città. Trovammo un buon seguito tra gli
artigiani e i lavoratori meccanici: gente scontenta di come stavano
andando le cose. Si percepiva nell'aria l'imminenza di qualcosa che
avrebbe potuto manifestarsi da un momento all'altro.
In meno di un anno riuscimmo a organizzare una comunità
consistente, le autorità sembravano non preoccuparsi troppo
di questi Anabattisti infervorati che disdegnavano il lucro e
annunciavano la fine del mondo.
In cuor mio sentivo che le cose non potevano andare cosí
lisce per molto tempo. Trijpmaker continuava a predicare la mitezza, la
testimonianza, il martirio passivo, secondo le consegne di Hofmann. Io
sapevo che non poteva durare: e se le autorità avessero
deciso di considerarci pericolosi per il buon ordine cittadino? Cosa
sarebbe successo se gli uomini e le donne che aveva convertito
all'imitazione di Cristo si fossero trovati davanti alle armi? Credeva
davvero che si sarebbero lasciati crocifiggere senza opporre
resistenza? Lui ne era certo. E poi il tempo era prossimo, Hofmann
aveva previsto il Giudizio per il 1533. Contro tali argomenti non c'era
molto da controbattere, alzavo le spalle e lo lasciavo a quella fiducia
illimitata.
Continuavamo a crescere di numero, il morale era alto, la devozione dei
ribattezzati immensa. Dai villaggi intorno ad Amsterdam ci giungevano
le missive sgrammaticate di nuovi adepti, contadini, falegnami,
tessitori. Avevo l'impressione di trovarmi in un grande calderone
tappato da un coperchio che presto o tardi sarebbe saltato. Era
inebriante.
Infine la predicazione contro la ricchezza in una delle
città piú lucrose d'Europa sortí il
suo effetto. Nell'autunno di quell'anno la Corte dell'Aja
ordinò alle autorità di Amsterdam di reprimere
gli Anabattisti e consegnare Trijpmaker.
Eloi mi versa dell'acqua.
- Sei stanco, vuoi andare a dormire?
La domanda contiene la supplica di continuare, è un bambino
avvinto dalla narrazione, anche se probabilmente gli parlo di fatti che
già conosce.
- Tanto vale che ti racconti di quello che fecero a Trijpmaker e di
come decisi di riprendere in mano una spada. All'inizio fu solo per
resistere a chi voleva la mia testa -. Stiro le braccia e ghigno. - Poi
incontrai il mio vero Giovanni Battista, quello che mi avrebbe convinto
di nuovo a combattere il giogo mortifero dei preti, dei nobili, dei
mercanti. E per dio lo feci: presi quella spada e incominciai. Di
questo non mi pento. Non della scelta che feci allora, davanti a quelle
teste mozzate, affisse in cima a un palo. La prima era quella dell'uomo
che mi aveva condotto in Olanda, un pazzo invasato forse, uno stolto
che cercava il martirio e l'aveva trovato. Ma era quello che gli
avevano fatto.
Quasi sento Eloi rabbrividire.
- Sí, Trijpmaker scelse la sua fine, quella di Cristo.
Avrebbe potuto fuggire se avesse voluto: Hubrechts, uno dei borgomastri
della città, stava dalla nostra parte e aveva cercato fino a
quel momento di intralciare la cattura. Fu lui a mandare una domestica
a casa nostra ad avvertirci che gli sbirri stavano arrivando a prendere
il capo della comunità. Ci misi un attimo a raccogliere la
mia roba e come me molti altri. Ma lui no, non Jan Volkertsz, il
fabbricante di zoccoli di Hoorn diventato missionario. Si sedette e
aspettò le guardie: non aveva niente da temere, la
verità di Cristo era dalla sua parte. Con lui ne presero
altri sette e li portarono all'Aja. Li torturarono per giorni. Dicono
che a Trijpmaker bruciarono i coglioni e gli conficcarono chiodi sotto
le unghie. L'unica cosa che non gli toccarono fu la lingua:
perché potesse fare i nomi di tutti gli altri. E li fece.
Anche il mio. Non l'ho mai giudicato per questo, la tortura piega gli
animi piú forti, e credo che la sua fede sia stata
già schiacciata dal ferro rovente senza bisogno del rancore
degli altri. Nessuno di noi gliene fece una colpa, riuscimmo a metterci
in salvo, avevamo molte case sicure disposte a ospitarci.
- Quegli otto li giustiziarono?
Annuisco: - In punto di morte smentirono tutto quanto gli era stato
estorto con la tortura: una magra consolazione che non so quanto abbia
potuto farli crepare in pace. Le loro teste furono rispedite ad
Amsterdam e affisse sulla piazza. Un messaggio chiaro: chi ci riprova
fa la stessa fine.
Era il novembre o dicembre del '31, il tempo che Lienhard Jost tirasse
le cuoia. Quel nome attirava gli sbirri come il letame le mosche. La
famiglia che mi nascondeva mi concesse il suo, spacciandomi per un
cugino emigrato in Germania e tornato dopo molti anni. Boekbinder si
chiamavano e il cugino esisteva veramente, solo che in Sassonia c'era
morto, affogato in un fiume per il ribaltamento del traghetto su cui
stava viaggiando. Il suo nome era Gerrit. E cosí fui il
fantasma di Gerrit Boekbinder, Gert per i famigliari.
Fu all'inizio del '32 che giunse una lettera di Hofmann. Se ne stava a
Strasburgo, aveva avuto il fegato di ritornarci. Evidentemente quando
aveva ricevuto la notizia del trattamento riservato a Trijpmaker e agli
altri, il vecchio Melchior s'era cagato sotto. La lettera annunciava
l'inizio dello Stillstand, la sospensione di tutti i battesimi, in
Germania e nei Paesi Bassi, per almeno due anni. Da quel momento in poi
avremmo dovuto muoverci nell'ombra in attesa che le acque si
calmassero: niente piú piazzate alla luce del sole, niente
piú proclami, tantomeno dichiarazioni di guerra al mondo.
Per Hofmann avremmo dovuto essere un gregge di predicatori miti,
solerti e non troppo chiassosi, disposti a farsi macellare tutti in
fila uno dopo l'altro in nome dell'Altissimo. Piú o meno
questo stava scrivendo in quei mesi a Strasburgo.
Per quanto mi riguardava non era ancora chiaro cosa avrei fatto, ma non
sarei piú rimasto con le mani in mano, nascosto come un cane
preso a calci, anche se la gente che mi ospitava era gentile e
generosa. Un giorno, nella legnaia trovai una vecchia spada
arrugginita, un cimelio della guerra di Gheldria a cui qualche
Boekbinder doveva aver partecipato. Provai un brivido strano
nell'impugnare di nuovo un'arma e capii che era giunto il momento di
tentare qualcosa di grandioso, che era necessario piantarla con quel
proselitismo pacifico, perché sempre soltanto ferro avremmo
trovato dall'altra parte, quello delle alabarde dei gendarmi e della
scure del boia. Ma sapevo che non sarei andato molto lontano da solo.
Era un nuovo inizio alla cieca, mi sentivo fremere, piú
lucido e determinato di quanto non mi fossi mai sentito: non mi
spaventava sapere che l'avventura si sarebbe trasformata in guerra,
poiché sarebbe stata l'unica che sia mai valsa la pena
combattere: quella per liberarsi dall'oppressione. Hofmann poteva
continuare a fabbricare martiri, io avrei cercato dei combattenti. E
avrei dato filo da torcere.
E adesso, amico mio, credo proprio che ti lascerò per il mio
letto, deve essere molto tardi. Continueremo domani, se non ti dispiace.
- Un momento ancora. Balthasar ti chiama Gert «dal
pozzo». Perché?
A Eloi non sfugge nulla, ogni parola per lui contiene una deviazione
percorribile del racconto.
Sorrido: - Domani ti dirò anche di questo, di quanto
casualmente possono nascere i soprannomi e di come sia poi impossibile
toglierseli di dosso.
Tratto da: Luther Blisset, Q.
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